“Voi siete la luce del mondo” (Matteo 5:14) (3a e ultima parte)

di Marco Soranno

(segue dalla seconda parte)

Il pericolo non consiste nel fatto che la luce si spenga. I Cristiani debbono guardarsi da certi comportamenti che danneggerebbero la testimonianza al mondo:

1] La luce non va nascosta. Il discepolo di Cristo non deve chiudersi nella propria intimità (cosa che rivela oscurità), con il pretesto di darsi alla contemplazione, poiché non è mai stato comandato da Gesù. Il Chiostro (sia esso mentale o materiale) non appartiene al discepolato dei seguaci di Cristo, i quali debbono illuminare il mondo con l’esempio piuttosto che con la fuga. Per quelli che hanno bramosia di allegorizzare tutto, l’immagine della città non è del tutto adatta all’idea delle opere. Ma bisogna tenere conto che: 1) non si tratta di un’allegoria, Gesù parla di una città che è visibile da lontano; 2) Gesù parla di una città, quindi non si riferisce alla città per eccellenza (Gerusalemme, città di Dio sul monte Sion) ma semplicemente a una città sita su un monte; 3) anticamente, per questioni igieniche, quanto per maggiore sicurezza contro i criminali, le città (e le borgate) della Palestina erano edificate sulla sommità o i fianchi della montagna,e dunque a motivo della loro posizione elevata non possono essere nascoste. La Chiesa è dunque destinata ad occupare nel mondo una posizione eminente affinché possa svolgere con efficacia la missione affidatagli.

Il moggio (il contenitore d’argilla per misurare il grano) simboleggia ciò che è mondano e rischia di offuscare la nostra testimonianza. La robusta mondanità è tipica di tanti sedicenti discepoli, convinti che il vanto d’essere “di Cristo” autorizzi a vivere secondo il mondo, senza il benché minimo rischio.

2] La luce non deve abbagliare. La nostra testimonianza non dev’essere aggressiva. Dinanzi le coscienze più deboli e incerte di fronte ai cambiamenti nei confronti delle tradizioni, occorre rispetto. Perché riscoprano la fede, le persone dovranno maturare alla luce e al calore dell’Evangelo.

L’irruenza e l’intolleranza nei confronti di chi vuol affrettare il cambiamento nelle persone che vengono a contatto con la fede (e la Chiesa) Evangelica, non è una cosa buona. Un simile agire è demagogico, non pedagogico! Si lusingano le anime deboli, piuttosto che fortificarle.

Ricordiamocelo: I frutti matureranno a tempo debito, dal seme fecondo della Parola di Dio. Questo deve motivare l’evangelizzazione senza cedere però alla nevrosi, all’ansia da prestazione.

3] Il Cristiano non brilla di luce propria: Non dobbiamo vantarci di noi stessi. La nostra teologia, tradizione e identità religiosa non sono la luce. Tutto ciò che rende passivo il discepolo, non dà gloria a Dio. A differenza del sale (che può diventare insipido), la luce non perde il proprio splendore ma ciò non giustifica indolenza, bensì piena aderenza all’Evangelo. Nessuna pretestuosa “illuminazione interiore” (esperienza emotiva separata dalla Parola) ma la piena adesione al Vangelo: Tale è il criterio per definire la luce del Signore dagli effimeri bagliori della religione.

Matteo usa l’espressione καλὰ ἔργα che possiamo rendere con azioni nobili, onorevoli, quindi tutti i discepoli devono essere operosi, concreti nel manifestare gli effetti dell’insegnamento di Gesù.

Matteo (a differenza di Paolo) considera indicativo e imperativo. Il suo Vangelo è tra i pochi libri del N.T. in cui l’onore al Signore Dio appaia così chiaramente come l’obiettivo di tutto l’agire cristiano. Quando la vera luce illumina gli uomini, essi sono esortati a farla risplendere (Isaia 60:1-3). La Chiesa è la comunità di fede che deve far brillare la luce (adesione al Vangelo di Cristo) mediante le opere. Ciò vuol dire che i cristiani sono luce del mondo, perché lasciano brillare le loro opere.

L’indicativo “voi siete la luce del mondo” è una richiesta che è necessario attuare tramite le azioni, senza fermarsi alle parole.

Il Vangelo ci parla di buone azioni e ciò si presta a due interpretazioni: 1) traducendo l’espressione ebraica ma’asìm tòvìm, si intendono le richieste di Dio (opere pie, elemosine) che non sono prescritte come Legge dalla Toràh; 2) dopo la scomparsa degli Apostoli, i teologi intesero le parole di Gesù come definizione della prassi cristiana (cf. Il Pastore di Erma, la 2° Lettera di Clemente). NB: Per noi evangelici, parlarne è tutt’atro che facile. La nostra teologia contesta le cosiddette opere meritorie, ma non esclude affatto le opere di fede. In altre parole, l’opera è conseguenza della fede, non sua premessa. Le buone opere dimostrano concretamente il nostro cambiamento di vita. Pertanto, l’essere luce del Signore è strettamente connesso al frutto di luce (Efesini 5:9). In tutto ciò consiste il servizio cristiano: le diaconie sono connesse all’evangelizzazione poiché l’esempio insegna, e quanti hanno pregiudizio contro il Cristianesimo, nel vedere le nostre buone opere, possono essere portati ad amare la verità.

Concludendo, questo brano del Vangelo allontana dalla sete di gloria che è propria dell’uomo (cf. Teodoro di Eraclea).

Impariamo così quanto i Cristiani debbano essere santi e spirituali, perché solo una vita conforme all’Evangelo dà senso al nostro chiamarci Cristiani. Dopo cinquecento anni, la Riforma conserva tutto il valore, poiché l’urgenza della Chiesa Riformata e non conformata, ci sprona a effondere una luce che nessuna tenebra intellettuale e morale potrà mai offuscare.

Amen.

 

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*