Esiste un modo “giusto” di rendere a Dio il culto che Gli è dovuto?

Per quanto importanti siano “I cinque Sola” della Riforma, il conflitto su ciò che sia da considerarsi vero e falso, giusto e sbagliato, nel culto che a Dio è dovuto era altrettanto importante.

Molte chiese (di ogni denominazione) le vediamo discutere oggi su come escogitare “metodi” per guadagnarsi nuovi membri di chiesa (lo chiamano “evangelizzazione”). Per essere così “maggiormente attraenti”, alcune adattano il loro messaggio alla “sensibilità contemporanea” e/o modificano la forma in cui celebrano il culto di Dio e, per puro pragmatismo, introducono nuovi nuovi “stili di culto” che ritengono meglio adatti per raggiungere determinati “target” (categorie sociali come “i giovani”, oppure “la classe media”, “gli immigrati” ecc. ecc.). Non di rado alcune comunità, nello stesso locale, tengono culti ad orari diversi adattati a diverse categorie di fedeli ad esempio: “culti di famiglia” (dove si dà molto spazio ai bambini), “culti per giovani” (con gruppi musicali stile rock), culti “tradizionali” per persone più attempate che “sono abituate ad un certo modo di fare le cose”, ecc. A questo fine, le chiese talvolta ingaggiano veri e propri “esperti di marketing” o predicatori “che ci sanno fare” per attrarre “la gente giusta” con metodi appropriati. Ecco così che, quando una comunità “imbrocca la formula giusta” e il numero dei loro fedeli cresce, ritengono che quello sia da considerarsi un “indubbio segno” che Dio la stia benedicendo.
E’ vero che “non importa” come si renda culto a Dio (entro certi limiti, per altro soggettivi e che alcuni non esitano a valicare) e se un culto sia espressione di puro emozionalismo, oppure si tratti di un’elaborata e mistica liturgia, la cosa non sia rilevante, “basta che” la gente venga e “adori Dio”? Ecco così che quello che la Bibbia dice a proposito del culto e se quello sia da considerarsi normativo, non sembra essere una questione che interessi più di quel tanto la chiesa moderna.
Al tempo della Riforma, fra tutte le questioni contestate fra le autorità del Cattolicesimo ed i riformatori, non c’era una che fosse maggiormente cruciale di quella che riguardava quale fosse da considerarsi autentico e vero culto di Dio. E’ al riformatore scozzese John Knox che si attribuisce la formulazione (sulla base dei principi della Riforma calviniana) della legge scritturale sul culto: tutte le forme di culto (e tutte le cerimonie religiose) devono possedere una chiara legittimazione biblica per poter essere ammesse come valide espressione del culto di Dio. Questo principio è stato successivamente chiamato “principio regolatore del culto” [1], vale a dire la dottrina che la Bibbia solamente regola il nostro approccio a Dio nel culto che Gli è dovuto. Dopo il primo sermone di Knox, lui e John Rough sono convocati di fronte ad una commissione di delegati pontifici per rendere conto di certe loro dottrine protestanti che i primi stavano predicando. Fra le dottrine disputate era quella che “il Papa è un Anticristo” e la loro persuasione che “la Messa è un’abominevole idolatria”. Punto chiave della contesa era la posizione del Riformatore che “l’uomo non può farsi o inventarsi da sé una religione che sia accettabile a Dio. L’uomo è tenuto ad osservare e mantenere la religione che riceve da Dio stesso, senza aggiungervi o sottrarvi nulla”.
La Confessione di Fede presbiteriana di Westminster, al cap. XXI, lo esprime in questo modo: “Il modo accettabile di rendere Culto al vero Dio … è stato istituito da Lui stesso e tanto definito dalla Sua volontà rivelata, che non Gli si può rendere Culto secondo le immaginazioni e le invenzioni umane, o i suggerimenti di Satana, sotto una qualsiasi rappresentazione visibile o in qualsiasi altro modo che non sia prescritto nelle Sacre Scritture” [2]
Potreste così domandarvi perché coloro che avevano scritto la Confessione di Fede di Westminster vi includono questo articolo. Qual era la loro legittimazione biblica?
Considerate il giudizio dei figli di Aaronne che si trova in Levitico 10, dal versetto 1 al 3:

“Nadab e Abiu, figli d’Aaronne, presero ciascuno il suo turibolo, vi misero dentro del fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti al SIGNORE del fuoco estraneo, diverso da ciò che egli aveva loro ordinato. Allora un fuoco uscì dalla presenza del SIGNORE e li divorò; così morirono davanti al SIGNORE. Allora Mosè disse ad Aaronne: «Questo è quello di cui il SIGNORE ha parlato, quando ha detto: “Io sarò santificato per mezzo di quelli che mi stanno vicino e sarò glorificato in presenza di tutto il popolo”». Aaronne tacque”.

Vedete, Dio aveva comandato fuoco e il bruciare incenso, ma i figli di Aaronne vi avevano portato un certo tipo di fuoco e di incenso che Dio non aveva espressamente comandato, tanto che Egli lo chiama “del fuoco estraneo”.

Non c’è nulla nel testo che implichi che i figli di Aaronne avessero cercato di fare qualcosa di male. Forse, pensavano, Dio sarebbe stato contento lo stesso e quello sarebbe stato un modo nuovo ed eccitante di rendere culto a Dio. Il fuoco che essi avevano offerto, però, non era quello che Dio aveva comandato ed essi ne subiscono una tragica e durissima conseguenza. Troppo dura? Ma “tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione” (Romani 15:4).
Durante il periodo medievale il Cattolicesimo romano aveva aggiunto molte cose al culto di Dio: processioni, lettura della Bibbia in latino (lingua incomprensibile al popolo), la dottrina della transustanziazione, sacerdotalismo, sacramentalismo, statue, immagini, reliquie, cerimonie di ogni tipo ecc. ecc. Qual’era il problema che i Riformatori vedevano in tutto questo ed altro ancora? Nessuna di queste cose era convalidata dall’insegnamento biblico, per quanto cercassero disperatamente di distorcere le Scritture per giustificarlo. Il Cattolicesimo romano si atteneva alla credenza che tutto quello che le Scritture non condannano esplicitamente fosse permesso e in ogni caso i sofisti della gerarchia ecclesiastica si sbizzarrivano nel cercare di giustificare le pratiche più strane e diverse. I Riformatori vedevano in questo nient’altro che il modo per introdurre nel culto di Dio praticamente tutto quello che si riteneva fosse “utile”, anche pratiche decisamente riprovevoli. Nelle parole della Confessione di fede di Westminster: “Non Gli si può rendere Culto secondo le immaginazioni e le invenzioni umane, o i suggerimenti di Satana, sotto una qualsiasi rappresentazione visibile o in qualsiasi altro modo che non sia prescritto nelle Sacre Scritture” [3]
Il culto che a Dio è dovuto dev’essere regolato da ciò che la Parola di Dio afferma esplicitamente come valido per sempre e che vediamo essere insegnato ed esemplificato negli scritti del Nuovo Testamento.
Sfortunatamente la maggior parte delle chiese – anche quelle che si dicono evangeliche – non ritengono che il principio del “Sola Scrittura” riguardi anche le loro pratiche cultuali e si ritengono autorizzate a fare tutto quello che credono opportuno o “utile”. Il culto è di Dio, ma “ci pensano loro” a suggerire a Dio che cosa Egli possa gradire e sia “rilevante”. Ironicamente, poi, hanno pure l’audacia di pregare per un risveglio? Un autentico risveglio, però, non potrà che sorgere da un sincero desiderio di ubbidire a tutto quello che Dio ci comanda di fare nella Sua Parola, anche nell’ambito del Culto. Dio abbia misericordia di tale cecità e presunzione.

Adattato da: “Papal Worship and the Protestant Reformation”, di Jerry Johnson, in Contra Mundum, 19 giugno 2013 [4]

Per approfondire:
  • Capitolo 21 della Confessione di Fede di Westminster sul Culto [5]
  • Istruzioni sul culto pubblico (1645) dai Canoni di Westminster [6]
  • Direttive per il culto pubblico [7]
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