Abbiamo la Bibbia, e questo ci basta? – Culto di domenica 25 settembre 2016

Persuadere molti dei nostri contemporanei della verità del messaggio evangelico sulla necessità che tutti abbiamo di ravvederci da quello che Dio considera peccato e di affidarci completamente alla Persona ed opera del Signore e Salvatore Gesù Cristo per la nostra salvezza temporale ed eterna, è davvero “un’impresa disperata”. Grazie a Dio, non dipende tanto dalle nostre capacità persuasive, ma dall’opera sovrana dello Spirito di Dio sul cuore e sulla mente di chi ascolta il messaggio. Si potrebbe dire: …ma se solo comparisse loro davanti Gesù stesso o qualche personaggio del passato a dirglielo, ne sarebbero persuasi, o magari se operassimo segni e prodigi meravigliosi… La risposta che dà Gesù stesso può lasciarci perplessi: “No, basta la Bibbia!”. Com’è possibile? Perché? E’ quel che vediamo questa domenica commentando il testo biblico di Luca 16:19-31.

25 Settembre 2016 – 19. Domenica dopo PentecosteSalmo da cantare: 91 [Chi nel riparo del Signor (Ginevrino)].D/R del Catechismo di Heidelberg: Quarantatreesima DomenicaTesti biblici: Geremia 32:1-3a, 6-15; Salmi 91:1-6, 14-16; 1 Timoteo 6:6-19; Luca 16:19-31Preghiera: Oh Dio, Tu dichiari il tuo potere onnipotente soprattutto nel manifestare misericordia e pietà:  Concedici la pienezza della Tua grazia affinché noi, correndo per ottenere le tue promesse, si diventi partecipi dei Tuoi tesori celesti. per Gesù Cristo. nostro Signore, che vive e regna con Te e con lo Spirito Santo, un solo Dio, ora e per sempre. Amen.Predicazione: Abbiamo la Bibbia, e questo ci basta?Collegamenti:

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Paolo Castellina

2 commenti

  1. L’Icona di Rembrandt: Vangelo in immagine.
    La prima cosa da notare e’ che il quadro si presenta quasi come un dittico; non si parla solo del ritorno del prodigo, ma anche dell’altro figlio, il maggiore, che crede di non aver bisogno di tornare. Il centro non e’ dato dalla scena del ritorno, perché si vogliono presentare i due figli, cioe’ le diverse reazioni alla proposta d’amore del padre. Potremo quindi chiamare il quadro: “Il padre e i suoi figli”. Lo sguardo tuttavia e’ catturato dal padre stesso: il suo volto e’ il luogo dal quale parte la luce che si irradia sulle mani, sul figlio minore e sul figlio maggiore. La luce del padre invade entrambi i figli: non fa preferenza, propone a ciascuno la luce del suo amore. Notiamo infatti come la materia stessa sembra farsi luce, trasfigurarsi… E’ un quadro silenzioso e immobile, che lascia in un clima sospeso ed estatico: la contemplazione che richiede spalanca alla dimensione eterna dell’abbraccio di Dio. Siamo di fronte al silenzio di Dio che abbraccia commosso la propria creatura. Secondo la consuetudine del tempo, Rembrandt raffigura la parabola collegandola a quella del pubblicano e del fariseo che pregano nel tempio. Il figlio minore ha l’atteggiamento del pubblicano che chiede pieta’ in ginocchio, il maggiore e’ in piedi in un atteggiamento di autosufficienza, come il fariseo. Attorno, al buio, altre persone guardano la scena: sono i servi della parabola, osservatori di quanto avviene. C’e’ lo sguardo curioso delle donne in lontananza e quello un po’ commosso e stupito dell’uomo vicino al fratello maggiore. Forse sono i servi chiamati a diventare figli, forse ancora i lontani che non entrano nella luce fino a quando non accettano di entrare in gioco, di accettare la sfida della relazione con Dio, che si puo’ accogliere e rifiutare, ma che comunque non si puo’ mai ignorare. Chi guarda senza sentirsi coinvolto si sottrae alla luce, o meglio, deve ancora accettare di entrare nella luce, ha bisogno ancor piu’ di essere salvato. In un’altra opera, l’acquaforte detta “dei cento fiorini”, Rembrandt raffigura al buio i derelitti che attendono la salvezza di Cristo, coloro che sanno di dover essere salvati e accettano di riconoscere il loro buio poichéa luce lo possa invadere. Il buio quindi non e’ quello del rifiuto o del peccato, ma quello dell’attesa. Tornando all’abbraccio del padre, notiamo che non e’ descritto un amore paterno, ma l’amore stesso di Dio: e’ la luce interiore, che viene dal di dentro, a tradursi in un abbraccio e il gesto non e’ quello di chi stringe, chiude in se’, ma quello di chi accoglie e benedice. L’amore di Dio libera, non costringe; accoglie ma non imprigiona; da’ respiro, non soffoca; da’ vita, non la chiede. Non c’e’ una linea ben definita nei tratti, i confini non sono marcati, come se avvenisse una vera osmosi fra padre e figlio, come se, nell’abbraccio, la vita del padre diventasse totalmente a disposizione del figlio. Il padre e’ raffigurato come un cieco, come se le lacrime lo avessero accecato; non tanto accecato dall’ira, quanto dal dolore. Non un padre offeso, ma un padre ferito dal peccato dell’uomo. Ma la cecita’ del padre parla anche di un suo non vedere piu’ il peccato del figlio (“ti sei gettato alle spalle tutti i miei peccati”, Isaia 38). E’ l’abbraccio stesso a diventare il suo sguardo; Dio ci guarda abbracciandoci, facendoci entrare in se’. E’ come se le mani diventassero il suo sguardo. Questo gesto richiama un altro quadro di Rembrandt “La profetessa Anna che legge la Bibbia”, dove l’anziana donna tocca il libro sacro leggendolo con le mani; lei, quasi cieca, sfiora le pagine e ricorda nel cuore la parola di Dio. Il padre del nostro quadro compie lo stesso gesto; riconosce a memoria la persona del figlio; non solo: ha lo stesso atteggiamento riverente di Anna verso la Sacra Scrittura, come se il figlio che torna diventasse per il padre una Bibbia da riconoscere ed amare. L’atteggiamento del padre e’ profondamente materno; e’ un dio padre e madre. Infatti e’ proprio di una madre attrarre il figlio al proprio ventre, quasi a volerlo sentire nuovamente in grembo, a volerlo riconoscere dalle viscere che lo hanno portato per tanto tempo. Il figlio, con il capo rasato, assomiglia quindi ad un neonato che si appoggia la grembo della madre per trovare vita. Cosi’ i segni della sua schiavitu’ (capo rasato, veste lacera, piedi nudi e feriti) diventano il luogo stesso dove si manifesta la Grazia…Sembra di sentire qui l’eco del proconio pasquale dove si canta: “Felix culpa!”, felice colpa che ci fa conoscere l’infinita misericordia di Dio. Vi e’ un abbandono del figlio nel grembo del padre. Il mantello paterno diventa la nuova tenda che accoglie il figlio, la nuova casa per chi non aveva piu’ casa. Sappiamo dalla parabola che il padre non parla di perdono, ma perdona ! Non racconta il suo dolore, non offre dall’alto di un offesa un perdono che accusa. Egli offre una festa! . Qui e’ raffigurato il grembo del padre che chiude la bocca alle varie giustificazioni del figlio; Dio non chiede le ragioni del ritorno. La conversione del figlio non precede l’abbraccio del padre, ne e’ invece una conseguenza. Il figlio poverissimo, spoglio di tutto, privo di dignita’ come chi ritorna da una lunga prigionia, scalzo, dopo un lungo cammino su sentieri sbagliati che lo hanno ferito, senza mantello, senza sandali, trova nel padre nuovamente la propria identita’: l’abbraccio gli rivela che lui e’ prima di tutto il figlio. Egli entra nella ricchezza del padre, il suo mantello che lo copre gli rivela che il padre non gli da’ qualcosa, ma se stesso. L’unico segno di dignita’ che gli era rimasto era la spada sul fianco; anche se torna come un mendicante gli rimane il segno della lotta, il simbolo della condizione di figlio armato dal padre contro il male. Questo dice che anche nella situazione piu’ grave e “lontana” l’uomo puo’ sempre combattere il nemico; il peccato non lo priva della possibilita’ della lotta. Le mani del padre sono raffigurate in maniera diversa; la luce che parte dal volto sposta l’attenzione su diesse e scopriamo che quella a sinistra di chi guarda ha tratti delicati e femminili, mentre quella a destra ha tratti vigorosi e maschili; e’ descritta la “matri-paternita’” di Dio, che supera pero’ ogni esempio di paternita’ o maternita’ umana. La mano sinistra, in corrispondenza del piede scalzo e ferito sembra essere un segno di protezione che lenisce le ferite e il dolore; quella di destra, in corrispondenza del piede nel sandalo, pare rinvigorire e donare nuova forza. A lato e’ raffigurato il fratello maggiore in piedi, come il fariseo al tempio: altezzoso sovrasta tutti. Nella sua obbedienza farisaica e legalista si crede giusto; e’ autosufficiente. Dall’alto della sua natura giudica e si pone sopra il padre stesso. Ogni volta che noi giudichiamo il fratello ci mettiamo sopra Dio (“Uno solo e’ il legislatore e il giudice; chi sei tu che giudichi il tuo prossimo? ” (Giovanni 4) . Nell’opera citata, l’acquaforte detta “dei cento fiorini”, Rembrandt raffigura cosi’ i dottori della legge e gli scribi; in piedi, illuminati, retti, non bisognosi della luce di Cristo che sta arrivando. Sono gli uomini sicuri di se’, che bastano a se stessi, che hanno sempre obbedito e si sentono a posto nella loro coscienza. Cosi’ il maggiore appare come il figlio perduto nel risentimento, triste, poiché chiuso nell’invidia e nella gelosia. E’ raggiunto dalla luce del padre, ma non vuole entrarvi, e’ chiamato alla gioia dell’abbraccio, ma rimane duro, immobile, le braccia incrociate di chi si chiude in se stesso, si protegge, si difende da possibili intrusioni. Il padre si apre e lui si chiude, il padre da’ e lui giudica. Lo vediamo poi raffigurato non con gli abiti da lavoro, sebbene, secondo la parabola, torni dai campi, ma con abiti di lusso. “Cio’ che e’ mio e’ tuo ” gli dira’ il padre; ha il mantello come il padre, e’ sontuoso come un principe. Egli deve solo scoprire che quello che ha e’ sempre del padre e vedere che anche lui e’ stato oggetto di misericordia. Il maggiore e’ lontano anche visivamente, come era lontano il minore; c’e’ uno spazio vuoto che aspetta il suo ritorno. E’ tuttavia illuminato dalla luce di quell’abbraccio e noi possiamo immaginare l’abbraccio successivo: il padre e’ pronto, speriamo lo diventi anche il figlio maggiore.

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