Su “Il tramonto del sacro” – Che senso ha ancora la chiesa (se la Bibbia non conta)?

Ho letto e, in generale, ho condiviso ciò che hanno scritto Diego Fiumarella, Rosario, Paolo Tabacchetti, il pastore Paolo Castellina e Luca Zacchi a proposito dell’articolo di Alessandro Esposito, “Il tramonto del sacro”, i quali hanno parlato di come la sacralità della Bibbia sia irrinunciabile. È dunque chiaro che noi cristiani valdesi riformati dobbiamo respingere risolutamente le tesi del pastore Esposito.

Vorrei però qui provare a esaminare le conseguenze di quanto il pastore Esposito sostiene.

Secondo lui, le Scritture devono essere “de-sacralizzate”. E, per chi avesse qualche dubbio, precisa cosa intende: bisogna smettere “definitivamente” smettere di “riferirsi ad esse come all’espressione diretta ed inequivocabile della volontà divina”. Segue una dotta riflessione, che invita a trattare la Bibbia come ogni altro testo, con “libera interpretazione”, nella quale “ogni interrogativo è legittimo ed ogni risposta provvisoria, poiché fonte di una nuova domanda”. Con ulteriore chiarezza, il “pastore valdese in Argentina” ribadisce: “è importante sottolineare senza tentennamenti che quando leggiamo le epistole paoline è Paolo e non Dio a parlare”.

E poi: “Insomma: anche in ambito di interpretazione scritturale, l’unica autorità è rappresentata dalla ragione, nella sua duplice funzione critica ed immaginativa: la sacralità, sia essa quella del testo o dell’autorità che si erge a suo unico ed infallibile interprete, va definitivamente derubricata, se non vogliamo che l’essere umano venga perennemente relegato in quello che Kant definiva opportunamente lo stato di minorità.”

Tali affermazioni, come già è stato scritto in questo sito, non si limitano a discostarsi dalla Confessione di Fede Valdese, ma sono, parola per parola, in frontale opposizione ad essa. Tuttavia, proviamo a seguire il ragionamento.

FONDAMENTALISMO ANTI-BIBLICO

Intanto, va notata la radicalità e la granitica certezza che si manifesta in queste affermazioni. L’idea che la Bibbia sia un testo sacro che trasmette la Parola di Dio non è che va temperata tenendo conto dell’epoca in cui è stata scritta, ma va abbandonata definitivamente! Nelle epistole di Paolo non è che l’ispirazione divina è in qualche modo modificata o velata dalla psicologia dell’apostolo, ma Dio non c’entra per nulla! La ragione, non è che va usata nel senso che dice Paolo in I Tessalonicesi 5:21: “esaminate ogni cosa e ritenete il bene”, ma è l’unica autorità!

Siamo al fondamentalismo anti-biblico o, per dirlo alla Esposito, al fondamentalismo della de-sacralizzazione della Bibbia.

QUALI PRESUPPOSTI ?

In primo luogo, dire che non esiste un testo che possa essere ritenuto “espressione diretta ed inequivocabile della volontà divina”, è molto meno “razionale” di quanto il tono risoluto della frase faccia pensare. Perché non ci dovrebbe essere un tale libro? Che senso avrebbe dire che non c’è nessun libro che sia “espressione diretta ed inequivocabile di Cicerone” (o di qualsiasi altro scrittore) ? Perché non dovrebbe esistere un tal libro? Si potrebbe al massimo dire che, mentre per Cicerone è facile essere sicuro di quale sia, per Dio non è così facile. Ma l’unico presupposto per cui potremmo avere la certezza che non esiste un libro che esprima la volontà di Dio è l’ipotesi che Dio non esista. È di questo che stiamo parlando?

Dire che nelle epistole di Paolo c’è solo la voce di Paolo e non quella di Dio non può che avere come presupposto che Dio non parli all’umanità attraverso nessun uomo, cosa che a sua volta può avere alcune spiegazioni: 1) Dio non vuole parlare all’umanità, 2) Dio non riesce a parlare all’umanità, 3) Dio non esiste (ci risiamo!). Tutte e tre le spiegazioni parrebbero togliere ogni senso a una chiesa o a qualsiasi altra organizzazione che – con varie sfumature – si richiami a Dio.

Dire che la ragione è l’unica autorità per l’interpretazione strutturale suona razionalistico, ma in realtà è un atto di fede. Perché non dovrebbe essere qualcos’altro, come ad esempio, il sentimento? E poi, che si intende per ragione? Temo voglia dire materialismo radicale, in base al quale va rifiutato tutto ciò che non risponde al più scettico degli approcci o che non è materialmente documentato, come miracoli, risurrezioni, persone che sentono la voce di Dio, uomini che scrivono ispirati da Dio, pochi uomini che ne sconfiggono tanti in combattimento, profezie che si avverano, origini storiche molto antiche e tanto altro, incluso magari atti dei eroismo o dedizione. In pratica, pressoché tutto ciò che c’è nella Bibbia!

COME SI DOVREBBE LEGGERE LA BIBBIA

Nella prima parte ho evidenziato che i punti dati per graniticamente certi dal pastore Esposito abbiano come presupposto che Dio o non esiste o non comunica con gli uomini e dunque non c’è ragione per mettere su una chiesa che gli renda il culto.

Vorrei ora esaminare il punto centrale: cosa significa trattare la Bibbia come ogni altro testo, con “libera interpretazione”, nella quale “ogni interrogativo è legittimo ed ogni risposta provvisoria, poiché fonte di una nuova domanda”?

Possono esserci principalmente due modi di interpretare un testo al di là del suo significato letterale.

Il primo è chiedersi: “Che cosa vuole veramente dire l’autore?” Per questo è importante capire il contesto, l’ambiente culturale, il momento storico in cui l’autore si trovava. Ad esempio, è utile sapere che l’occupazione romana era un tema che tutti gli israeliti avevano in mente e pertanto alcuni episodi biblici ne risentono fortemente come la domanda posta a Gesù sul tributo o l’affermazione sul porgere l’altra guancia. Un’operazione, questa, che è legittimo e spesso utile fare su alcuni aspetti della Bibbia, in particolare quello storico, a proposito del quale possiamo avere dei riscontri esterni non contenuti in essa.

Il secondo modo è chiedersi, una volta compreso cosa voleva dire l’autore: “Come andarono le cose veramente?”. Poiché, generalmente, la realtà dei fatti può essere diversa da quella che l’autore descrive, ad esempio perché egli non è a conoscenza di alcuni elementi che noi invece abbiamo e dunque trae conclusioni che noi possiamo correggere o perché egli vuol sostenere una determinata tesi ed è per questo disposto a forzare la sua narrazione. Possiamo realmente fare questa domanda sulla Bibbia? Possiamo cioè ritenere che certe parti della Bibbia siano carenti di informazioni utili a narrare i fatti descritti al punto da alterarli in modo decisivo? Possiamo attribuire ad autori biblici l’intenzione di piegare la realtà dei fatti? Certo, se la Bibbia – come dice il pastore Esposito – è un libro come un altro la risposta è “Sì”. Se invece è Parola di Dio, si dovrebbe dire “No”, salvo forse su dettagli marginali della sua narrazione.

Ma il punto più importante è un altro. Supponendo di trovare qualche punto fattuale della narrazione biblica che non corrisponde a certezze che studi storici o archeologici ci danno (chi ci ha provato di solito è stato clamorosamente smentito; vedi fra i tanti il caso – ricordato poche settimane fa su questo sito – degli Hittiti ritenuti dai sapientoni un’invenzione o un errore biblico quando già stavano emergendo straordinarie scoperte archeologiche dei loro documenti e delle loro città), avrebbe senso accettarlo: noi leggiamo la Bibbia non per curiosità storica, ma per altre ragioni.

Ma che senso ha applicare i due citati metodi di analisi rispetto alla “Bibbia come volontà di Dio”? Quali riscontri abbiamo per dire che su questo le cose non stanno come dicono Paolo, o Giovanni, o Mosè o uno degli altri estensori materiali della Bibbia? Qualcuno degli odierni teologi ha avuto altre fonti sulla volontà di Dio? Forse gli hanno parlato “faccia a faccia” come leggiamo faceva Mosè? Forse Gesù è apparso loro in forma di luce sfolgorante dal cielo come ha fatto con Paolo? Hanno trovato libri sacri supplementari come affermò di aver fatto il fondatore dei mormoni? Nessuno degli odierni teologi afferma questo. E allora, come la mettiamo?

Alessandro Esposito ha la sua spiegazione: secondo lui tali cose non avvengono oggi, né sono accadute in passato a Mosè (che secondo lui non è mai esistito e, se per caso è esistito,

“di sicuro” non ha scritto lui il Pentateuco) né a Paolo né agli altri autori biblici. E di ciò pare essere certo, perché se tali cose fossero avvenute vorrebbe dire che la Bibbia è “espressione diretta ed inequivocabile della volontà divina”, cosa che lui nega risolutamente. Ma gli altri “teologi”, gli altri pastori valdesi, che alla fine affrontano le Scritture nello stesso modo del loro collega Esposito, come giustificano il loro approccio? Anche per loro la Bibbia è un libro come un altro? Se non è così, dovrebbero dirlo e spiegare come giustificano allora il prendere affermazioni bibliche, e rovesciarle completamente. Sarei molto grato che ce lo dicessero!

Per il pastore Esposito, “l’unica autorità è rappresentata dalla ragione. Affermazione che ha la sua logica: se la Bibbia è un libro come un altro, Dio non esiste o non comunica con noi, non ci resta che la ragione. Ma siccome ciascuno interpreta “la ragione” a modo suo, in pratica l’unica autorità siamo noi stessi, ciascuno per sé. La Bibbia e tutto ciò che è in essa – parrebbe – non sono altro che un pretesto, uno spunto per qualche versetto che viene comodo. Niente più delle frasette che si trovano nella confezione dei Baci Perugina: se la frase non ti piace, butti il foglietto e ti godi il cioccolatino. Altro che raffinatezze teologiche, epistemologiche, ermeneutiche, esegetiche e avanti con altri paroloni!

Francamente, la sincerità “espositiana” (uso questa parola come eco del suo uso dell’aggettivo “gesuano” per riferirsi a messaggi che noi chiameremmo cristiani) è assai più apprezzabile, logica e coerente delle contorsioni di chi definisce “biblico” ciò che contraddice apertamente la Bibbia.

LA BIBBIA – PER LORO – È ININFLUENTE, È SOLO UNO SPUNTO

Insomma, se la ragione è l’unica autorità, si fa dire alla Bibbia ciò che si vuole. Anzi, poco importa ciò che dice la Bibbia, e poco importa se il libro di riferimento è la Bibbia o qualsiasi altro: la “ragione” dirà che cosa è da tenere e che cosa è da buttare, per cui il risultato è lo stesso qualunque sia il testo da cui si parte.

Insomma, un’operazione totalmente assurda. A meno che… A meno che non si ritenga – e ritorniamo sempre lì –

La Cattedrale di Strasburgo, già passata al protestantesimo, qui trasformata in tempio della Dea Ragione (1793)

che la Parola di Dio, cioè ciò che esprime la Sua volontà, non esista, o perché Dio stesso non esiste, o perché non vuole o non può comunicare con noi. A questo punto l’operazione è chiara: tutto il resto è cancellato e resta “la ragione”. Insomma: ateismo radicale, non diverso da quello professato dai tanti atei della storia.

Ecco perché qualcuno ritiene di poter dire che una cosa è bellissima e da celebrare anche quando la Bibbia la proibisce e la definisce un abominio agli occhi di Dio. Perché si è sostituita “la ragione” alla Bibbia. Certo, sarebbe più onesto non usare l’espressione “biblico” quando la Bibbia non c’entra più nulla. Ma bisogna prendere atto della sostituzione linguistica: “biblico” significa ormai “che mi piace”. Sì, perché che roba sarebbe questa “ragione” in nome della quale, tanto per fare un esempio, si ritiene che una coppia di maschi sia uguale a una coppia di uomo/donna rispetto al diventare genitori, come vuole l’ideologia “gender”, una follia che non ha nulla a che fare con la Ragione vera, ma che fior di “teologi” hanno dogmaticamente accettato?

CONSEGUENZA: CHE SENSO HA ESSERE CHIESA, AVERE DEI PASTORI?

Se non esiste cosa che possa essere ritenuta “espressione diretta ed inequivocabile della volontà divina”, né la Bibbia, né la “tradizione” (e su questa siamo d’accordo), che senso ha dar vita o mantenere in vita una chiesa che si definisce “evangelica”? Che senso ha stare in una chiesa che ancora ci parla di “Sola Scriptura”? Che senso ha dirsi cristiani, o anche “gesuani”, se le uniche testimonianze su Gesù Cristo sono date da questa Bibbia, che – dice il pastore Esposito – non rappresenta volontà di Dio ed è scritta da persone in modo tale che in essa prevale la psicologia delle persone stesse e non certo una ispirazione superiore e neppure la verità?

L’unico senso può essere questo: “chiesa” va intesa nel suo senso etimologico, neutrale dal punto di vista spirituale o ideologico, una “assemblea” qualsiasi, dove ciascuno dice quello che gli pare eventualmente cercando di convincere gli altri e cercando di avere una qualche posizione di rilievo in essa. In questo senso, ha nuovamente ragione il pastore Alessandro Esposito: “il fatto che io eserciti il ministero pastorale in seno ad una chiesa, significa che io debba mortificare il pensiero e prediligere l’ipocrisia quando gli studi e la riflessione mi conducono a pensare che la codificazione dogmatica di una fede che è esperienza di vita sia da rifiutare nelle sue conclusioni e, ancor più, nel suo metodo anti-storico e intrinsecamente autoritario? Il pensiero, fortunatamente, non conosce restrizioni né ammette autorità che ne limitino il libero esercizio: è per questo che l’eresia, termine che rinvia alla capacità di operare una scelta, rappresenterà sempre il cuore di una fede indomita perché mai paga delle soluzioni approntate dall’ortodossia per mettere a tacere il dissenso.” Infatti, se la Chiesa non ha alcuna posizione definita, perché dovrebbe avercela il pastore? Anche lui dirà quello che gli pare.

Ma, proseguendo su questa linea di nichilismo, che senso ha avere dei pastori? Perché dovremmo attribuire loro un maggior titolo rispetto agli altri, visto che non lo si vuole riconoscere neppure all’apostolo Paolo e agli altri autori biblici? Solo perché sono stati dichiarati “dottori” dalla Facoltà di Teologia? E quale sarebbe l’autorità della Facoltà? Quella di aver studiato di più la Bibbia, quel libro che “non rappresenta la volontà di Dio”? Anche le facoltà teologiche cattoliche studiano la Bibbia: dov’è la differenza? Dal fatto che arrivano a conclusioni dottrinarie diverse? Si vede che anche loro hanno deciso di non “mortificare il pensiero e prediligere l’ipocrisia”, o forse sono ipocriti anche loro: chi può dirlo?

Del resto, abbiamo già letto anni fa, era il 2010, un autorevole pastore affermare sul settimanale della chiesa: “Nel sottoscrivere la confessione di fede Valdese del 1655 i pastori valdesi si impegnano a esercitare il loro ministero nella linea della tradizione teologica riformata, ma non ad aderire ad ogni singola formulazione del documento.” In altre parole: si sottoscrive solennemente una cosa, ma se ne pensa e pratica un’altra, secondo una concezione “dinamica” del testo. Nella vita di tutti i giorni chi dà “interpretazioni personali” a un contratto che firma non è qualcuno con cui si tratta volentieri, ma pazienza! Con queste premesse, appunto, non ha senso la chiesa, non ha senso che ci siano dei pastori. Non ha senso non solo dal punto di vista spirituale, ma proprio in base a quella “ragione” che si vuole mettere sul trono che appartiene a Dio.

Lucio Malan

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