Il pastore Alessandro Esposito risponde a Paolo Tabacchetti

Pubblichiamo questo nu0vo intervento del pastore valdese Alessandro Esposito. Riteniamo utile questo scambio di idee per comprendere meglio le basi e le implicazioni del modo in cui molti pastori valdesi affrontano la Bibbia, anche quelli che – sia pure solo in privato – dissentono da lui, salvo arrivare a conclusioni molto simili.

A seguito delle riflessioni contenute nel mio articolo Il tramonto del sacro, ho ricevuto diverse osservazioni critiche: in particolare, in questo mio intervento, vorrei replicare alle obiezioni mossemi con estremo garbo e pertinenza dal signor Paolo Tabacchetti, che ringrazio per aver compreso in profondità lo spirito dialogico al quale i miei pensieri intendevano essere improntati. Spero che non me ne vogliano gli altri interlocutori se non ritengo necessario replicare ai pur sinceri inviti al ravvedimento da costoro indirizzatimi, dacché non ritengo che con siffatti presupposti sia possibile instaurare un confronto schietto e fecondo.

Vorrei riprendere qui di seguito quattro osservazioni dello stimato Tabacchetti, attraverso cui il gentile interlocutore mi ha offerto la possibilità di tornare ad approfondire la mia riflessione, consentendomi di riformularla e, mi auguro, di chiarirla ulteriormente.

In primo luogo, il mio interlocutore avanza il sospetto che, cito, «una ermeneutica post-moderna» non rappresenti altro se non un «modo per omologare il testo biblico», alla stessa stregua di quel dogmatismo che l’impostazione da me adottata intenderebbe criticare. A tale proposito vorrei sottolineare il fatto che l’approccio ermeneutico alla bibbia è proprio ciò che consente di evitare la deriva della reductio ad unum dei molteplici significati di un testo, dacché non esiste interpretazione di un racconto biblico se non se ne dà, per lo meno, un’altra che ne differisca in maniera più o meno sensibile. Ciò accade in particolar modo con i testi narrativi, la cui ricchezza di rimandi e di significati è letteralmente inesauribile, in maniera tale che limitarne il senso ad un’unica lettura, per quanto pregante, non può che rivelarsi riduttivo. Quello ermeneutico rappresenta un approccio mediante cui è possibile sostenere autenticamente l’ulteriorità di un testo rispetto alla nostra capacità di com-prenderlo nelle sempre troppo anguste categorie concettuali: i racconti biblici ci indirizzano costantemente verso questa ricchezza di significati che vi traspare senza esaurirvisi e che rappresenta il riflesso di una trascendenza intesa nell’accezione del costante rimando ad un senso che non è possibile tracciare in maniera univoca e definitiva.

Vengo così alla seconda osservazione del mio gentile interlocutore, secondo cui riconoscere la ragione quale unica autorità in ambito di interpretazione biblica avrebbe quale esito – senz’altro nefasto, ne convengo – quello di «una nuova ortodossia». Questo sarebbe senz’altro vero nel caso in cui la ragione venisse intesa in senso neo-positivista quale canone rigoroso mediante cui definire la verità del reale e del linguaggio che lo esprime: ma un tale riduzionismo offende la ragione assai più di quanto non la rispetti. Per quel che mi concerne, faccio mia la lezione kantiana che della ragione mette in evidenza il limite e non la pervasività, ricordando entro quale rigoroso perimetro il suo esercizio non si tramuta in tracotanza.

La ragione non fornisce il senso, perché quest’ultimo, pur non svilendola, la eccede: ma ribadire l’importanza che essa riveste nell’ambito dell’interpretazione biblica e della ricostruzione storica di un testo o dei dogmi che hanno inteso cristallizzarne il senso, significa rifiutare recisamente ogni deriva autoritaria in un ambito qual è quello della libera ricerca, scientifica come spirituale, la quale non accetta imposizioni o divieti. Si tratta dell’audacia con cui Giobbe vanifica la granitica ortodossia dei suoi amici, presentandosi al cospetto di Dio con l’esile ma onesto bagaglio delle proprie ragioni, che alfine lo stesso Dio non gli rinfaccerà ma – al contrario – gli riconoscerà.

Sulle altre due critiche mossemi, convengo con il mio interlocutore. Nella prima delle due egli asserisce che «il cristianesimo è per definizione contro-culturale, in quanto non separa mai il divino dall’umano, la fede dalla ragione, l’immanente dal trascendente»: trovo che si tratti di affermazioni profonde e suggestive, che sottoscrivo in toto. Sono persuaso, difatti, che l’immanenza abbia un senso unicamente nel suo rimando costitutivo a ciò che al contempo la trascende e la abita. Se però tra fede e ragione, divino ed umano, non vi è opposizione frontale, nemmeno vi è piena identità: perché vi sia relazione, difatti, è necessario preservare la differenza, mediante cui è possibile istituire una distinzione che non è separazione radicale, iato incolmabile o mutua estraneità. Divino ed umano si interpellano reciprocamente ed è da questo intreccio che nascono sia la narrazione biblica che le sue infinite interpretazioni, luoghi, entrambi, dell’inesauribilità di Dio e dell’insondabilità dell’uomo.

Nella seconda critica da me condivisa, infine, il mio stimato interlocutore fa riferimento al fatto che io limiti le mie indagini ed i miei studi «alla parte cosiddetta liberale» della riflessione teologica cristiana: quanto egli afferma è senz’altro vero. Vorrei però svolgere due precisazioni al riguardo. In primo luogo, la mia scelta è consapevole, poiché lo studio dei “classici” dell’ortodossia riformata ha fatto parte del mio percorso di formazione, benché tali letture non mi abbiano avvinto né convinto: questo, naturalmente, a motivo – anzitutto – dei miei limiti ricettivi, così come a causa della mia scarsa propensione all’impostazione dogmatica della riflessione teologica, che ho sviluppato in senso più storico ed esegetico che non sistematico. In seconda istanza, mi preme precisare il fatto che i miei riferimenti bibliografici sono plurimi ed in nessun modo riconducibili ad un’unica corrente di pensiero o, per così dire, ad un solo “genere letterario”: ciò, beninteso, non mi consente certo di colmare le mie numerose lacune, ma rende lo spettro della mia sensibilità e della riflessione che ne discende più vasto e, per ciò stesso, più difficilmente percorribile e maggiormente esposto alle imprecisioni.

Di questa frammentarietà della mia riflessione e dei limiti che essa implica sono consapevole: cerco pertanto di ovviarvi attraverso il confronto onesto e pacato con chi, come lo stimato Tabacchetti, mi aiuta con le sue osservazioni a tornare sul mio pensiero per ridiscuterlo ed approfondirlo.

Alessandro Esposito

1 commento

  1. Scrive il pastore Esposito: “Spero che non me ne vogliano gli altri interlocutori se non ritengo necessario replicare ai pur sinceri inviti al ravvedimento da costoro indirizzatimi, dacché non ritengo che con siffatti presupposti sia possibile instaurare un confronto schietto e fecondo.”

    Non gliene voglio di sicuro. Non è a noi che deve rispondere, o verso i quali deve ravvedersi. Risponderà all’Eterno, come tutti noi del resto, dei torti che fa alla Parola di Dio. Tra uomini ci si può confrnatare, alla Parola di Dio si deve solo obbedienza.

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